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LEGGERE E COMPRENDERE.
Un po' di filosofia dell'interpretazione1

di Yahis Martari

 

In questo breve saggio prenderemo le mosse dalle teorie di Stanley Fish, un celebre filosofo dell'interpretazione americano, che per molti anni si è anche occupato degli aspetti educativi e scolastici di tale problema. Nel secondo paragrafo considereremo la portata di tali teorie sull'attività interpretativa quotidiana. Nel terzo, invece, lo metteremo in relazione con un panorama teorico più ampio.

 

1. Che cos'è un'interpretazione

Stanley Fish è uno dei massimi intellettuali americani, esperti di teoria dell'interpretazione. Ha svolto tutta la sua ricerca, e ha impegnato tutta la sua vita, cercando risposte a domande come: "che cosa significa avere senso?", "esiste un'interpretazione più giusta di un'altra?", "si può insegnare a interpretare qualcosa?"
Fish ha attraversato non solo il territorio dell'interpretazione letteraria, ma anche quello, se possibile anche più accidentato, dell'ermeneutica giuridica, passando anche per lo studio e l'insegnamento delle religioni comparate.
Così facendo, lo studioso ha dato sistemazione a un certo numero di riflessioni su che cosa sia un'interpretazione e sulla sua rilevanza per l'insegnamento, oltre che per la comunità critica e scientifica. Le sue principali convinzioni possono essere riassunte in tre punti2:

 

1.1. Non esiste linguaggio, senza interpretazione

L'attività interpretativa è un processo obbligato per qualsiasi tipo di azione linguistica: senza interpretazione non esiste alcun linguaggio e anche se ci fosse gli esseri umani non lo potrebbero impiegare in alcun modo.
La categoria di normalità - riferita a un'interpretazione - non è metafisica, ma piuttosto istituzionale: ci sono interpretazioni che siamo istituzionalmente portati a costruire e altre che risultano invece impossibili, in base alla «comunità interpretativa» ( interpretive community ) in cui ci troviamo. Inoltre troviamo, per la stessa ragione, alcune interpretazioni più probabili di altre.
Ma Fish non può essere definito un relativista assoluto, perché crede nel linguaggio come sistema di norme interpretative e crede anche alla necessità di tali norme: al di là e al di fuori di esse non esiste linguaggio non avviene comunicazione. Inoltre, una posizione di relativismo assoluto richiederebbe a chi la occupasse un impossibile distacco totale da tutte le posizioni, compresa la propria. Solo, occorre riconoscere che è proprio questo sistema di credenze a dare vita all'interpretazione e alla comprensione di qualsiasi forma di linguaggio: «non si dà mai un momento in cui non si crede a nulla, in cui la coscienza è vergine di qualsiasi categoria del pensiero; e tutte le categorie del pensiero operative a un momento dato avranno un fondamento esente da dubbi» (p. 159).

 

1.2. Il testo ha una natura sociale

Non è importante se un testo (esattamente come il testo che state leggendo ora) sia un costrutto stabile o no, cioè se abbia davvero un nucleo di significato imprescindibile e, per così dire, immutabile nel tempo. Ciò che conta, invece, è che esista una instabilità della stessa dicibilità e della stessa determinatezza del testo. Spieghiamo: il testo significa sempre un certo numero definito di cose, ma il problema è che la natura di queste cose cambia di volta in volta. Il che ci può fare pensare che un vero testo, come realtà oggettivamente data e definibile una volta per sempre, non esista affatto.
Tutto quello che cambia, a seconda delle letture e delle interpretazioni, non dipende dai lettori e non dipende dal testo, o meglio non dipende solo da loro, né tanto meno soltanto dalla lingua: dipende piuttosto dai presupposti e dalle pratiche abituali dell' istituzione sociale all'interno della quale avviene l'interpretazione.
La struttura di norme all'interno della quale percepiamo il linguaggio «non è astratta e indipendente, bensì sociale» (p. 158) e in quanto tale mutevole in relazione alle situazioni in cui avviene la nostra interpretazione.
Proprio per questo motivo, un enunciato è limitato a priori dal modo in cui può essere percepito e non dopo che è stato percepito: ovvero, quando ci mettiamo a significare qualcosa lo facciamo in base a certi strumenti interpretativi di natura sociale che non intervengono, quindi, dopo la comprensione ma prima e durante e sono, anzi, essi stessi, la comprensione. «Uno non dice "eccomi in una situazione; ora posso cominciare a determinare che cosa significano queste parole". Trovarsi in una situazione equivale a vedere le parole, queste o altre, come già dotate di significato» (p. 152).
Non si dà un'interpretazione superiore a un'altra, migliore per qualità o pertinenza a un oggetto significato, semplicemente perché quell'oggetto significato, in quanto realtà oggettiva, non esiste affatto. Non esiste enunciato di cui il significato sopravviva al cambiamento di situazione, cioè di ogni situazione immaginabile.

 

1.3. L'interpretazione è costruzione di significato

Questi due punti hanno ripercussioni su tutta la lingua; per esempio nella definizione di genere letterario: nel titolo di un celebre saggio, Fish si chiede «come riconoscere una poesia quando se ne incontra una?». La risposta del senso comune suggerisce che esistono alcuni tratti distintivi che ci permettono di considerare un testo poesia; la sua risposta è invece che è l'atto di riconoscimento della poesia a fare sì che certi tratti vengano individuati, anzi che vengano costruiti dal lettore. Come a dire che in certe situazioni sociali e in relazione a certe azioni linguistiche, noi indossiamo «occhi-che-vedono-poesia» (p. 166).
Quindi, più in generale, «tutti i testi possono essere presi per letterari, perché è sempre possibile guardare a una qualsiasi sequenza linguistica in maniera tale che riveli delle proprietà in quel dato momento considerate come letterarie» (p. 15).
Conseguentemente, «l'interpretazione non è l'arte di analizzare i significati bensì l'arte di costruirli. Gli interpreti non decodificano le poesie: le fanno» (p. 167).


1 Le idee di questo saggio sono state presentate, in forma radicalmente diversa e assai più estesa, in Y. Martari, "Il senso liberato. Stanley Fish e la didattica della lingua", in Intersezioni 2/2007.
2 Le citazioni sono tolte da S. Fish, Is There a Text in This Class? The Authority of Interpretive Communities, 1980, nell'ed. italiana C'è un testo in questa classe? , tr. it., Einaudi, Torino, 1987.

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