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Giochi di lotta

Andrea Ceciliani


     Sto filmando dei bambini, di 5 anni, durante l’ora di gioco libero nel cortile della scuola. Un gruppo, armato di piccole racchette da tennis, si apparta in un angolo del giardino e inizia a giocare agli spadaccini.  Alè! Penso io, ora qualcuno si farà male! Resto in silenzio, dietro il treppiede della telecamera, da tempo ignorato dai bambini assuefatti alla mia presenza. Il combattimento ha inizio e, come previsto, un bambino riceve un colpo dall’alto in basso che, scivolando sul manico della racchetta, raggiunge l’impugnatura e, quindi, la sua mano. Il bambino corre piangendo dalla maestra che, stranamente, non interviene per interrompere il gioco. Poco dopo, rasserenato, il bambino torna dai suoi amici, con la sua racchetta in mano. Ferma tutto il gruppetto e, insieme confabulano, si parlano, si scambiano pareri. Il gioco riprende e, con mia sorpresa, il fendente dall’alto in basso, quello che aveva causato l’incidente precedente, è scomparso, i bambini non lo usano più. Il problema è stato risolto, le nuove regole consentono maggiore sicurezza al gioco che appassiona e coinvolge i bambini, tanto da spingerli a risolvere le situazioni piuttosto che abbandonare le esperienze.

    Riflettendo su questo episodio ho pensato a quante cose, attraverso questo il gioco di combattimento, i bambini hanno appreso: organizzare il gioco, modulare e rimodulare le regole, confrontarsi e prendere decisioni, risolvere problemi e condividere nuovamente l’esperienza. Quando impediamo queste situazioni ludiche, con atteggiamenti preoccupati e iperprotettivi, vuol dire che sviliamo e non consideriamo le potenzialità dei bambini, la loro capacità di esplorare la zona di sviluppo prossimale e giungere là ove noi non immagineremmo di poterli condurre.
     L’osservazione ecologica dei bambini evidenzia categorie di gioco aggressivo riconducibili a lotte, combattimenti, corse e rincorse, come tendenza evolutiva del bambino, sostenuta da aspetti ancestrali legati all’istinto di autoconservazione e alla necessità di stabilire gerarchie dominanti. In effetti, il gioco di combattimento e di lotta, è una forma di interazione tra pari che sembra occupare il 10% del gioco libero dei bambini (Smith et al., 2004), interessando maggiormente i maschi e in tono minore le femmine.  La nostra cultura si attende i comportamenti aggressivi dal maschio, che trova in esso rinforzo diretto, da parte dei pari, e indiretto, da parte dell’adulto. Le femmine utilizzano maggiormente l’aggressività relazionale, indiretta, come escludere un pari dal gruppo o minacciare la fine di un’amicizia.
     L’aggressività fa parte del mondo sociale del bambino (Kokko, Pulkkinen, 2005). Come altri comportamenti è influenzata dalle esperienze a cui il bambino prende parte. Molteplici sono i fattori che concorrono alla manifestazione del comportamento aggressivo nei bambini: differenze individuali, influenze e condizioni sociali, esposizione alla violenza o all’abuso, esperienze familiari. La manifestazione aggressiva va dunque considerata – nel processo di educazione e cura rivolto al bambino, ma anche nelle età successive – come elemento di sviluppo da affrontare e non da eludere o inibire. Si tratta di una tappa necessaria all’acquisizione di competenze relazionali con cui affrontare e risolvere gli inevitabili conflitti che nascono nelle quotidiane esperienze di vita, onde evitare l’interpretazione dell’aggressione come comportamento accettabile o strategia di riuscita nella soluzione dei conflitti (Vaughn et al., 2003)
     Oggi l’educazione tende a limitare le manifestazioni, anche giocose, dell’aggressività, mentre il bambino rischia di essere fortemente esposto alla violenza passiva, anche domestica, se non proprio a subirla direttamente senza possibili mediazioni (Ceciliani, 2009a). Educare l’aggressività, in età infantile, può prevenire disagi che si propagano nelle età successive evitando, nei casi più gravi, che possa sfociare in vera e propria violenza.
     Mediare il naturale sviluppo dell’aggressività, attraverso i giochi di lotta, sostiene il bambino nello sviluppo delle competenze socio-relazionali, grazie al confronto con i pari e alla capacità di controllare le reazioni aggressive in una realtà accettabile e adeguata (Ceciliani, 2009b)
Il gioco di combattimento e lotta è una dimensione del comportamento sociale, composto da azioni fisiche vigorose, che assomiglia a un combattimento reale eccetto per la sua componente ludica. Diversamente dal combattimento reale, infatti, si caratterizza per la presenza di effetti piacevoli evidenziati da sorrisi, reciprocità, alternanza di ruoli subordinati o sovraordinati e affiliazione continuata: il giocare insieme anche alla fine della battaglia (Smith, 1997).
     Il gioco di lotta, distinto nettamente dall’aggressione fisica, assume i connotati di un’attività tendente a facilitare l’amicizia e il comportamento cooperativo pro sociale (Scott e Pankeseep, 2003). A differenza dei giochi virtuali o dell’esposizione passiva alla violenza, il gioco di lotta permette al bambino di comprendere gli effetti dell’azione aggressiva. Mentre nel cartone animato gli eroi sono colpiti e si rialzano sempre, nel gioco reale il bambino che viene messo a terra, o che subisce un colpo, lo percepisce fisicamente, comprende che oltre certi livelli, oltre il gioco, la violenza fa male, è negativa. Da qui scaturisce la necessità del gioco reale, fisico, non virtuale, per comprendere questi costrutti. 
     In una recente ricerca-azione, basata sulla pratica dei giochi tradizionali-popolari (Pierobon et al. 2010) è emerso come, nelle attività libere, il gioco maggiormente praticato, tra i tanti presentati, sia dai maschi sia dalle femmine, è stato il tiro alla fune, l’unico gioco di lotta indiretta (senza contatto fisico) che ha suscitato la partecipazione di quasi tutti i bambini, anche sotto forma di spettatori e supporter. È interessante sottolineare come, proprio le bambine, hanno variato il gioco, normalmente eseguito a squadre, nella forma individuale dell’uno contro uno.  Non solo, nella sua esecuzione a squadre, si sono potuti osservare comportamenti di gioco paradossale (Staccioli, 2008) quando, per esempio, i bambini si spostavano da una squadra all’altra, per supportare il gruppo che stava perdendo e proseguire il gioco; oppure quando un gruppo, ormai vicino alla sconfitta, si accordava per mollare improvvisamente la corda e far cadere la squadra vincente tra le risate di tutti i bambini.
     Il gioco di lotta/combattimento, concludendo, si propone come una cornice educativa complessa e completa, utile per mediare il naturale sviluppo dell’aggressività e educare i bambini alla relazione sociale. Il forte connotato socio-relazionale di questa forma ludica si evidenzia nel fatto che, dopo una certa età, quando l’asimmetria di gioco potrebbe sfociare in litigi veri e propri, essa tende ad attenuarsi e scomparire assumendo forme di confronto indiretto. Il dilagare del bullismo infantile e del cyber-bullismo, già nella scuola primaria, dovrebbe far riflettere sulla necessità di un’azione educativa che contempli l’idea di offrire contesti educativi per l’esercizio ludico del comportamento aggressivo, piuttosto della sua negazione con il rischio di una deriva verso la violenza vera e propria.

 

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