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LA LIBERTÀ DEL LETTORE.
Una nota teorica sui limiti dell'interpretazione

di Yahis Martari

 

Fino a che punto il dialogo ermeneutico, la lettura del testo e del mondo, lasciano spazio al nostro libero interpretare? Fino a che punto, cioè, la complessità del lettore e quella del testo possono incontrarsi liberamente? E ancora: esistono quei "limiti dell'interpretazione" cui Umberto Eco ha dedicato una lunga serie di riflessioni e ai quali ha intitolato una famosa monografia? 1
Per dare risposta a queste domande sono state avanzate molte interpretazioni, da parte di teorici della lettura e filosofi del linguaggio soprattutto, ma i pareri restano, tutto sommato, contrastanti2. Per alcuni teorici il testo pone una serie infinita e imprevedibile di domande al lettore, il quale, in ognuna delle sue risposte possibili attua comunque, e legittimamente, un'interpretazione. Per altri, ci deve essere un limite alla facoltà del lettore di impadronirsi del dettato testuale; i limiti che impediscono al lettore di fare dire al testo cose che esso, sicuramente, non dice. Il problema, in tal caso, è comprendere come si possano stabilire tali limiti.
Idealmente, possiamo identificare due poli opposti che individuano i due differenti atteggiamenti intellettuali.
Da un lato, troviamo gli studiosi che, seguendo una lunga scia positivista, cercano di cancellare il lettore dalla questione della lettura: su questo piano teorico muoveva, per esempio, Ivor Richards.
L'altro polo è invece rappresentato da chi, come Stanley Fish, arriva a negare ogni rapporto vincolante tra testo e lettore, disconoscendo persino l'identità e il fondamento ontologico tanto dell'uno (il testo) quanto dell'altro (il lettore). Non solo il lettore è assolutamente libero, ma, tutto sommato, il lettore stesso, proprio come l'oggettività del testo, non esiste3.
Mentre Richards si faceva promotore di una oggettività quasi necessaria, Fish difende una contingenza assoluta, impersonificata da una comunità interpretante, all'interno della quale non esiste il soggetto ermeneutico individuale, né, tanto meno, l'oggettività del significato testuale.
Se volessimo provare a individuare un punto mediano, di compromesso, in questa contrapposizione, l'ipotesi che ci parrebbe più adatta, soprattutto in un quadro di didattica della lingua, è quella che affida il limite di ciò che il lettore può interpretare alla domanda del testo. Per comprendere di cosa si tratti, seguiamo il pensiero di Umberto Eco, il quale propone una differenziazione capitale e, tutto sommato, rispettosa tanto del diritto del lettore quanto di quello del testo. Un conto, ci dice, è interpretare un testo - quello che noi, qui, chiamiamo "dialogare"; altro conto, invece, è usarlo. Il lavoro, per quanto esiguo che abbiamo fatto qui sopra è di certo un dialogo, cioè un rispondere del lettore alle domande del testo. Ma nel momento in cui il lettore risponda a domande che il testo non fa, allora questi non sta più interpretando, ma usando una trama di parole e frasi per rievocare o costruire una qualche realtà che non ha, però, nulla a che vedere col testo.
L'obiezione che si può muovere a questo approccio è di carattere non meno radicale e ha coinvolto tanto i teorici dello strutturalismo quanto quelli della reader response theory; se il testo fa domande oggettive, e oggettivamente riconoscibili, allora è una sorta di "tabella di marcia" che il lettore, per costruire senso, è tenuto a rispettare.
L'accusa di pensare al testo come a una sorta di tabella di marcia di istruzioni, come a una pre-definizione dell'atto interpretativo è stata dunque mossa, di tanto in tanto, a Eco e al suo lettore modello4. Il lettore modello rappresenta l'insieme di tutte le domande che il testo può porre al lettore, ovvero tutte le indicazioni interpretative in cui un ipotetico lettore potrebbe imbattersi. Diverso è il caso del lettore implicito di Wolfgang Iser5, che non rappresenta la somma di indicazioni del testo, ma piuttosto l'insieme di tutti i possibili orientamenti interpretativi del lettore. Ciò che tuttavia accomuna i due approcci è che è la consapevolezza della complessità del tessuto testuale a permetterci letture in varia misura soggettive. Non l'assenza o la negazione del tessuto stesso, né la sua definizione in termini di regole fisse. E l'infinita complessità del tessuto descrive un infinito delimitato (come quello dei numeri decimali tra 0 e 1), non un infinito illimitato (come quello, poniamo, dei numeri relativi). Il modo di rispondere del lettore non è univoco, e così le diverse sfumature delle domande che il testo porge, ma "devono esserci, da qualche parte, dei criteri per limitare l'interpretazione"6.

 

 


1 Eco U. I limiti dell'interpretazione, Milano, Bompiani, 1990.
2 Su questo problema crf. Eco U. Interpretazione e sovrainterpretazione. Un dibattito con Richard Rorty, Jonatan Culler e Christine Brooke-Rose, Bompiani, Milano, 1995 [1992].
3 Per una disamina su questi problemi cfr. anche Compagnon A. Il demone della teoria. Letteratura e senso comune, Einaudi, Torino, 2000.
4 Cfr. in particolare Eco U. Lector in fabula, Bompiani, Milano, 1979.
5 Cfr. Iser W. L'atto della lettura, Il Mulino, Bologna, 1987.
6 Eco U. Interpretazione e sovrainterpretazione, op. cit. p. 51.

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